Nella gerarchia di ogni sguardo, dove fatalmente attribuiamo valori selezionando cosa prendere in conto e cosa invece tralasciare, il mondo naturale risulta quasi sempre perlopiù marginale. Un fondale indistinto dove le pur predominanti presenze vegetali e animali, risulta perlopiù residuale traspaiono, spesso dal secondo piano, proiezione di una lettura tutta antropocentrica dell’ambiente..
A questo modo dominante di assumere e intendere le relazioni tra uomini e altre entità non umane da alcuni decenni si oppone un complessivo ripensamento epistemologico teso a superare la crisi profonda della sensibilità occidentale che di fatto esclude dalla nostra attenzione tanta parte del vivente, rendendolo muto o imponendogli una modellazione antropomorfica. Sintomo e riflesso di “un’ontologia naturalista” – nella lettura dell’antropologia comparata di Philippe Descola una modalità di “composizione del mondo” – affermatasi in Europa nel corso dell’età moderna, e poi esportata, che si è strutturata attorno all’idea cardine del dualismo tra cultura e natura, del divario tra natura e società.
Dove la natura sarebbe sprovvista di significati propri e ai soli esseri umani verrebbe riconosciuta interiorità e quindi statuto di soggetti. Un’ontologia che, archiviate le risonanze della dimensione affettiva del premoderno, si impone assieme alla dicotomia corpo-spirito, nella dissociazione tra arte e scienza e nel disincanto che la razionalità di quest’ultima proietta assieme al suo sapere oggettivato per via di leggi e meccanismi causali su un mondo ridotto così a risorsa. Certo, resta pur sempre attingibile la conoscibilità molteplice cui approssimarsi per il tramite dell’arte, che risulta però relegata nella sfera del sensibile.
Ed è proprio incrociando arti e scienze, conoscenza e sensibilità immersiva, sovvertendo quindi dall’interno la grande divisione dell’incanto, che nel processo di ripensamento critico di tutto ciò irrompe oggi l’invito fin dal titolo del volume della storica dell’arte Estelle Zhong Mengual a Imparare a vedere. Che presto si traduce in una perentoria sollecitazione a vedere diversamente (sottotitolo Il punto di vista del vivente, nella meritoria edizione di Castelvecchi, pp. 255, € 30).
In una rilettura attorno alla questione del rapporto con la “natura” di alcuni capitoli della storia dell’arte e, assieme, della letteratura naturalistica – specialmente ottocentesca, anglosassone e al femminile –, l’autrice individua alla luce della riflessione antropologica e filosofica, da Descola ad Anna Tsing e Baptiste Morizot, alcune evidenze controcorrente di un diverso stile di attenzione, attivato proprio da parte di questi due tipi di sguardo.

Ben inteso, si tratta di indagare specialmente tra i modi di operare pratiche che scartano rispetto agli schemi disciplinari predominanti. Dal momento che l’attitudine classificatoria della storia naturale convenzionale tende piuttosto a reificare specie animali e vegetali ipostatizzandole a scapito di dinamiche e interazioni che le tramano, e che anche la pittura, gli strumenti dell’interpretazione simbolica, la sua prevalente lettura iconografica, hanno perlopiù stabilito un rapporto distante con il mondo del vivente, costruendo il nostro sguardo attraverso arcadie, nature morte e paesaggi e relegando la vita non umana alla condizione di immagine da contemplare, corredo di epopee, emblema di tutt’altro, accessorio della storia dell’umano, simbolo, metafora, schermo dove, in modo unidirezionale, proiettiamo emozioni e diamo forma a stati interiori. E ciò mentre le presenze non umane vengono ridotte a simboli, metafore, così come nell’alfabeto floreale del linguaggio dei fiori le loro fisionomie vengono ammantate di funzioni e valori altri.
Svisando dalla norma, il dominio della pittura di paesaggio e quello del racconto della storia naturale vengono indagati qui in quanto accomunati da attitudini di fondo e modi di procedere condivisi: l’interesse profondo al dato naturale, la ricerca costante e il tempo destinato all’allenamento dello sguardo riservato al mondo animato, il cambio di focale, le pratiche di trasmissione. Dalle “ontologie”, l’accento si sposta alle pratiche attraverso cui specialmente si formerebbe il nostro rapporto con l’ambiente. Per rinvenire nelle loro pieghe indizi e tracce di come possano cogliere i punti di vista del vivente,
L’ipotesi è che nell’800, secolo tanto della diffusione popolare della pratica naturalistica che della pittura paesaggistica, a maggior ragione con la pubblicazione de L’origine della specie di Darwin che includendo gli umani nella catena evolutiva, li affilia ai non umani incrinando anche la dicotomia tra natura e cultura, lo sguardo singolare di alcuni pittori si spinga a restituire dignità di soggetto al vivente, così come quello dei naturalisti, capace di integrare l’osservazione in una dimensione partecipata, si vadano combinando in un’attenzione che, sovvertendo la separazione tra sapere e sensibilità, finisce per restituire ed affermare nelle loro opere il punto di vista non umano.
Accanto ai testi fondativi degli studi naturalistici, tutti al maschile, Estelle Zhong-Mengual mette in fila un’interessante serie di pubblicazioni che nell’800 tra Inghilterra e Stati Uniti riscuotono un grande successo di pubblico.
Si tratta di opere di donne spesso autodidatte e ai margini dell’accademia, capaci di registrare e raccontare con passione ed empatia i fenomeni naturali osservati nel quotidiano a partire dalla propria sfera domestica, nel proprio giardino e nella campagna contermine.
Autrici divenute popolari come Arabella Buckley, la botanica statunitense Frances Theodora Parsons, editrice della prima guida pratica ai fiori selvatici nel 1893, o la micologa Anna Maria Hussey, operano immerse nella pratica naturalistica, indagano le abitudini di insetti o uccelli, la diffusione dei funghi e condividono informazioni, emozioni e percezioni estetiche, magari nella forma del diario.
Producono esse stesse i saperi di prima mano che trasmettono. Ma soprattutto, in una logica dell’incontro che le accomuna, condividono un’attenzione al vivente centrata sulla relazione con gli esseri che ci circondano piuttosto che sul soggetto di indagine.
Relazione che, nell’andar oltre generiche distinzioni, supera l’anonimato e procedendo nel senso del familiarizzare, “far conoscenza” con piante, animali e il loro ambiente, si fa occasione per ampliare il mondo. E, assieme, trasformare l’esperienza che si fa del mondo, arricchendo il proprio modo di essere nel mondo: non per caso, Estelle Zhong-Mengual sottolinea come la relazione con i corpi delle piante finisca per emancipare quelli delle donne, anche ispirando a queste ultime un abbigliamento più adatto alle pratiche naturalistiche.
In questa interazione permanente, da elementi di contesto, i non umani cominciano ad apparire nuovi attori, agenti potenziali con un proprio corpo: nell’etologia prospettivista concettualizzata da Baptiste Morizot, un corpo-prospettiva, il punto di vista di quel corpo. Che, come accade a noi con il nostro, definisce e modella l’ambiente (per una pianta, ad esempio, tramite la pratica della memoria della luce).
Imparare a vedere il vivente è dunque per l’autrice imparare a scoprire il punto di vista di un altro.
Assumendo il corpo-prospettiva, ad esempio, della felce, la Parson vede i luoghi preferiti dalla felce in quanto favorevoli alla sua riproduzione tramite spore, come li vede il corpo della felce.
Dello stesso segno, è nell’analisi di Estelle Zhong-Mengual, l’attenzione individualizzante al dettaglio delle singole piante, e non soltanto di quelle che popolano in primo piano la grande tela (168×303) dedicata a Il cuore delle Ande da Frederic Church, importante esponente della cosiddetta scuola dell’Hudson River (1859, Metropolitan Museum, New York).
Oltre la veduta d’insieme assicurata dalle diverse profondità di orizzonti – le nevi in lontananza e però anche la croce che si affaccia sul ruscello – è un fitto dialogo di protagonisti vegetali dipinti con la precisione e l’accuratezza in genere riservata ai volti a segnalare una loro consistenza in sé. E assieme un’unità della natura che si dispiega nel suo farsi plurale, in assonanza con gli echi recenti del darwiniano concetto di variazioni nell’evoluzione.

Così, procedendo nella rassegna dei testimoni attorno cui l’autrice costruisce il suo filo argomentativo, la lunga analisi dell’ancora una volta enorme quadro (250,5 x 401,6) di Albert Bierstadt Una tempesta sulle Montagne rocciose, Monte Rosalie del 1866 (Brooklin Museum, New York, peccato, malamente stampato nel volume) suggerisce la centralità della resa dal punto di vista del vivente. Nella fattispecie, del rapace discretamente dipinto “per sé stesso”, colto nella sua forma singolare come prodotto di un dialogo incessante con il suo ambiente, le correnti ascensionali, la sua storia ecologica ed evolutiva. Conferendo – si suggerisce – al dipinto interesse e dignità di pittura storica: non tuttavia di “pittura storica esclusivamente umana”, rappresentando invece il temporale dal punto di vista della montagna.
Illuminate teatralmente ed esposte in occasione di eventi e tour a fronte del pagamento di un biglietto, le enormi tele proposte da autori come Frederic Church e Albert Bierstadt–che pure con altri come loro condividevano una pratica artistica dove l’osservazione attenta andava assieme con il viaggiare e collezionare, erbari, rocce, uova di uccelli –rientrano in una diffusa drammatizzazione dell’epopea del West, non esente da retaggi colonialisti e che muove nel solco di una tradizione naturalista sensibile piuttosto, fin quasi al monopolio, alle retoriche e agli scenari estremi di una wilderness ai confini del mondo civilizzato, lontana da ogni quotidianità domestica.
Da queste grandi opere si distingue, nella scala e per una diversa, duplice messa a fuoco, un altro testimone cui l’autrice dedica un’ampia dissertazione finale, opera di Martin Johnson Heade.
Pittore di paesaggi, specialmente marine, soggetti naturalistici e nature morte, di magnolie su sfondi vellutati, Martin Johnson Heade era anche lui un viaggiatore curioso e un attento osservatore della natura, e negli anni 80 dell’800, con lo pseudonimo Didymus, denunciava sulla rivista Forest la sua preoccupazione per lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, tra caccia e degrado ambientale, specie negli habitat delle zone umide.

Sulla base di schizzi annotati durante i suoi viaggi in Sudamerica e ai Caraibi, Heade realizzerà a più riprese una serie di molte decine di dipinti di colibrì ritratti sullo sfondo dei loro habitat tropicali. Nel volume l’autrice sceglie di analizzare nel dettaglio quello intitolato Orchidee e colibrì, conservato al Museum of Fine Arts di Boston (35,88 x56,2) che, come molti altri della serie, propone questa relazione. Oltre all’interesse popolare per questi uccelli diffuso in Inghilterra e America a cavallo dell’Ottocento, in questa passione di una vita avrà pure verosimilmente pesato la pubblicazione nel 1860 di un testo di Darwin dove i fiori di orchidea son richiamati per illustrare la coevoluzione di piante e impollinatori a vantaggio della fecondazione incrociata.

Qui, come negli altri quadri della serie, s’impone una duplice focale. Uccelli e fiori ritratti in primissimo piano, non risultano isolati e statici secondo le prevalenti convenzioni dell’illustrazione naturalistica; piuttosto in bilico, nell’atto di agire: in relazione tra loro a segnalare cicli di vita e interconnessioni dinamiche, come parte di un tutto, reso tramite una profondità atmosferica a grandangolo sullo sfondo di un paesaggio che, al di là dell’osservazione puntuale restituisce quel senso di meraviglia imprescindibile nella comprensione della natura anche per il tramite di emozione, estetica e sentimento spesso invocata in anni di poco precedenti dal grande naturalista Alexander Von Humboldt.
Nella suggestiva ipotesi dell’autrice, l’avvolgente paesaggio in secondo piano sarebbe quello percepito dall’orchidea che in quanto epifita vive ad altezza della volta degli alberi. Come pure nell’incrocio tra il punto di vista del fiore e dell’uccello presi in una mutualistica relazione di coevoluzione sarebbe da collocarsi la scena di seduzione con il colibrì nel gioco dell’impollinazione che si lascia indovinare.
A illustrare una sorta di evento storico, del genere della storia evoluzionistica. E ciò, per quanto scene come queste fossero anche prodotti attentamente costruiti in studio (in molte delle composizioni la medesima orchidea torna, quasi riprodotta a ricalco).
Se nelle analisi dei dipinti, come nella necessità di approfondire le traiettorie storiche delle due pratiche grimaldello privilegiate nel volume restano ad oggi pur tra molte intriganti suggestioni, diverse parzialità e forzature, resta però, soprattutto, l’ambizione feconda di un’auspicabile per tanti versi controstoria ambientale, specie della pittura di paesaggio, che, prolungandosi oltre la storia sociale dell’arte e contemperando riprese iconografiche o stilistiche, consenta pure di mettersi in relazione con il mondo dei viventi come ambiente di vita, e di coglierne la pluralità di punti di vista.
Estelle Zhong Mengual, Imparare a vedere. Il punto di vista del vivente, Castelvecchi, pp. 255, € 30